La Parola di Dio della venticinquesima domenica del tempo 'per annum' si apre con l'invito che l'autore della seconda parte del libro del profeta Isaia rivolge agli esuli a Babilonia in conclusione del proprio scritto: "cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino".
"Mentre si fa trovare": come se ci fossero un tempo in cui il Signore si mostra e uno in cui si nasconde alla vista e alla ricerca del credente.
In effetti, nel Primo Testamento, non pochi sono i testi nei quali si esprime il desiderio di vedere il volto di Dio, cioè godere il dono della presenza del Signore, e quelli che danno voce al turbamento che prende il cuore del fedele quando il Signore nasconde il volto e l'uomo ne sperimenta l'assenza.
Ma il Signore si fa trovare, c'è un tempo in cui questo accade, per questo è importante perserverare nella ricerca e nell'invocazione perché non accada che, o per la fatica o per il venir meno della speranza o altro ancora, smettiamo di cercare e invocare e proprio quello sia il momento in cui il Signore ha scelto di rivelarsi a noi.
Il Vangelo riprende questa tematica nella prima parte del brano liturgico (Mt 20,1-16): il padrone della vigna esce per ben quattro volte nella stessa giornata e di queste l'ultima un'ora prima della fine del lavoro degli operai.
"Che se ne stavano lì": lì dove?
E' ancora il Vangelo a rispondere: "in piazza" - immaginiamoci la piazza principale, se non unica, di un villaggio di contadini e di pastori: qui si svolge la vita sociale della comunità, qui i lavoratori presi a giornata aspettano che qualcuno li chiami.
Il padrone esce per ben quattro volte, però bisogna stare in piazza e rimanervi fino alle cinque del pomeriggio, quando tutto sembra dirti che non verrà più nessuno a chiamarti per lavorare e tu già inizi a disperarti perché un altro giorno è passato e a casa non sai come dire ai tuoi che bisognerà tirare la cinghia sul cibo.
La piazza della ricerca del Signore e del suo volto.
La piazza dell'invocazione del suo santo Nome.
E finiamo con un gioiello della letteratura italiana del Novecento Dall'immagine tesa di Clemente Rebora, che l'autore scrisse poco prima della conversione al cattolicesimo: l'attesa può essere anche lunga, lunghissima, ma, se è perseverante, è destinata a realizzarsi e il solo presentimento del suo compiersi genera la certezza di una sovrabbondante pace del cuore.
Dall’imagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.