Nell’ottava domenica del tempo ordinario concludiamo la lettura del ‘discorso della pianura’ che Luca riporta al sesto capitolo del suo Vangelo.
Per capire il brano (i versetti da 39 a 45) dobbiamo rifarci necessariamente a quanto lo precede: le beatitudini e le lamentazioni, l’amore dei nemici e la generosità di vita.
A questo punto è come se Gesù dicesse ai suoi discepoli, cui si sta rivolgendo sotto gli occhi della folla che li attornia (versetti 19-20): “Ecco, io vi ho parlato apertamente e vi ho mostrato la direzione da prendere, la misura di vita da assumere come vostra. Adesso sta a voi interrogarvi su come vi ponete rispetto ad essa, verificare la qualità del vostro essere discepoli prendendo a riferimento le vostre opere e ciò che si muove nel vostro cuore”.
Il discorso procede per coppie oppositive: discepolo e maestro, trave e pagliuzza, albero buono e albero cattivo, frutti buoni e cattivi, fichi e spini, uva e rovi, uomo buono e uomo cattivo, bene e male; quasi a suggerire che una terza alternativa non si dà, ma una posizione va presa e netta, non sfumata. La parabola iniziale lo illustra bene: un cieco non può guidare un altro cieco.
Il Signore ci chiede che esaminiamo a fondo la coscienza perché vengano fuori le nostre cecità frutto di presunzione e di superbia: “un discepolo non è più del maestro”. Quante volte abbiamo la pretesa di voler insegnare a nostro Signore! Invece, quanta preparazione, quanta scuola di Vangelo perché possiamo assomigliare a lui, il divino Maestro! E il cammino non ha mai termine, ma sempre ricomincia ogni giorno e ogni momento!
Il Signore ci domanda di fare verità in noi stessi perché emergano a galla le nostre incoerenze, a partire da quelle nascoste fino alle più evidenti: trave e pagliuzza. Quelle incoerenze che evidenziano un’adorazione di sé stessi e il rifiuto di voler riconoscere il proprio peccato nel momento in cui si osserva puntigliosamente quello del prossimo.
Il Signore ci ricorda che sono le nostre opere a parlare e su quelle siamo esaminati, sono le opere a rivelarci al mondo come discepoli: i frutti buoni e i frutti cattivi, fichi e spini, uva e rovo. A parlare di noi e di quanto siamo bravi possiamo passare anche ore ed ore, ma bisogna vedere che dicono i fatti. Ci dipingiamo come vitigni scelti e poi siamo soltanto dei pruni che è bene scansare se non ci si vuol far male.
Il Signore ci spinge a volgere lo sguardo nel profondo del nostro essere, in quel cuore che è la sede dei pensieri e dei sentimenti, il centro della nostra vita interiore e di relazione: negli abissi dell’animo umano, là dove i sentimenti e gli affetti mettono le radici e da dove si innalzano verso l’esterno, diventando gesti, parole. Manifestandosi anche più di quel che vorremmo noi coscientemente: in una sovrabbondanza di bene come di male.